Battaglie In Sintesi
27 Luglio 1848
Figlio di Carlo Emanuele principe di Carignano e di Maria Cristina di Sassonia-Curlandia, ebbe genitori di tendenze apertamente liberali e, educato a Parigi e a Ginevra, fu sottotenente dei dragoni nell'esercito napoleonico. Tornò nel Piemonte nel maggio 1814 e, erede presuntivo al trono, nel 1817 sposò Maria Teresa, figlia del granduca di Toscana Ferdinando III. Ambizioso, profondamente imbevuto di orgoglio dinastico e insieme insofferente dell'uggiosa atmosfera della corte di Vittorio Emanuele I, coltivò l'amicizia di giovani liberali, come Santorre di Santarosa e C. di San Marzano, e fu a conoscenza, e per un momento anche ambiguo fautore, della cospirazione che portò al moto piemontese del marzo 1821. Reggente per l'abdicazione di Vittorio Emanuele I, concesse la costituzione di Spagna (14 marzo), ma, sconfessato dal nuovo sovrano Carlo Felice, ubbidì all'ordine di recarsi a Novara presso le truppe del gen. V. Sallier de La Tour. Confinato in mal celato esilio a Firenze presso la corte del suocero, per riguadagnarsi la considerazione di Carlo Felice, andò a combattere i liberali spagnoli al Trocadero (agosto 1823). Morto Carlo Felice il 27 aprile 1831, Carlo Alberto salì al trono e, disprezzato dai liberali, si fece paladino dell'assolutismo regio e accarezzò sogni di crociate legittimiste. A tal periodo appartengono la convenzione militare con l'Austria (23 luglio 1831), i feroci processi anticarbonari e antimazziniani del 1833-34, il continuo appoggio ai gesuiti che rese soffocante l'atmosfera culturale e morale del Piemonte di quegli anni, l'aiuto morale e finanziario dato al tentativo legittimista della duchessa di Berry in Francia e al movimento reazionario del Sonderbund. Gelosissimo del suo potere personale, Carlo Alberto lo manteneva contrapponendo il Consiglio di stato (creato il 18 agosto 1831) ai ministri, oppure contrapponendo ministro a ministro (il clericale C. Solaro della Margherita al liberaleggiante E. di Villamarina), e ancora allontanando senza esitazione ministri creduti onnipotenti quali il conte A. della Escarena nel 1835. E le riforme interne, dall'abolizione della costituzione e della feudalità in Sardegna, al codice del 1837 che creò l'unità giuridica degli stati sabaudi, all'abolizione delle barriere economiche interne, ebbero ancora carattere di paternalismo illuminato. La crisi d'Oriente del 1840, modificando i dati fondamentali della politica europea, lo indusse a mutare politica e ad abbracciare un programma antiaustriaco di espansionismo territoriale nella pianura padana. Concesso, dopo ansie, dubbi e tentennamenti, lo statuto (4 marzo 1848), iniziò soltanto il 23 marzo - quando le Cinque giornate di Milano volgevano al termine - la campagna contro l'Austria. Ma, dopo alcune vittorie iniziali, le sconfitte di Custoza e di Milano lo costrinsero all'armistizio Salasco (9 agosto 1848). Accusato da ogni parte di tradimento, d'incapacità militare, di scarso animo, odiato dai Lombardi per la politica di tradizionale annessionismo piemontese perseguita durante la guerra, Carlo Alaberto volle riprendere le ostilità, ma, disfatto a Novara, dovette abdicare (23 marzo 1849). Nacque allora la "leggenda" carloalbertina, che, lasciando nell'ombra l'aperto reazionarismo della prima parte della vita del re e le ambiguità antiche e recenti, fece di Carlo Alberto un paladino del riscatto nazionale e della causa della libertà italiana: leggenda che non mancò di esercitare un influsso sull'opinione pubblica a favore della monarchia sabauda.
Feldmaresciallo austriaco, nato nel castello di Trebnice, in Boemia, il 5 novembre 1766, morto a Milano il 5 gennaio 1858. Entrato diciottenne nella carriera militare, fece le prime armi contro i Turchi, e nel 1793 fu nominato ufficiale d'ordinanza di J. P. Beaulieu, poi di S. v. Wurmser, con i quali fece le campagne d'Italia del 1796 e del 1797. Promosso colonnello, partecipò alla battaglia di Marengo, come aiutante di campo di M. v. Melas, quindi salì presto agli alti gradi militari, poiché nel 1808 era maggior generale e nel 1809 tenente feldmaresciallo, con l'incarico della riorganizzazione interna dell'esercito. Fece le campagne dal 1813 al 1815, in qualità di capo di Stato maggiore del principe K. Ph. Schwarzenberg, comandante in capo degli eserciti alleati, e dal 1816 al 1828 servì in Ungheria agli ordini del governatore, l'arciduca Ferdinando. Aveva deciso di ritirarsi dal servizio attivo, ottenendo, come generale di cavalleria, il comando della fortezza d'Olmütz (Olomouc), quando, scoppiata la rivoluzione dell'Italia centrale (febbraio 1831), fu destinato a sostituire il vecchio generale J. Ph. v. Frimont nel comando dell'esercito che l'Austria aveva concentrato in Lombardia. Promosse i lavori di fortificazione di Verona e attese al miglioramento dell'esercito, prevedendo che la rivoluzione del '31 e i susseguenti moti insurrezionali che agitavano l'Italia costituivano i prodromi di una guerra a breve scadenza. Nel 1836 fu promosso feldmaresciallo. Teneva il governo militare della Lombardia, quando scoppiò la rivoluzione delle Cinque Giornate milanesi, per cui il Radetzky fu costretto ad abbandonare la capitale lombarda e a rifugiarsi entro Verona, dopo di aver messo a ferro e a fuoco i paesi in cui gl'insorti gli contrastavano la ritirata. Dichiarata, da parte del Piemonte, la guerra all'Austria, il Radetzky rimase nel quadrilatero; e mentre l'esercito di Carlo Alberto assediava Peschiera, egli provvide a riorganizzare il suo esercito, per riprendere l'offensiva non appena gli fossero giunti i rinforzi da lui chiesti. Essi giunsero dalla parte del Veneto, dopo aver vinto a Cornuda e alle Castrette le truppe pontificie, e il 22 maggio operarono il congiungimento con le truppe del Radetzky Validamente accresciuto, l'esercito austriaco si concentrò allora a Mantova col proposito di tagliare la strada di Milano all'esercito piemontese, e dopo sanguinosa lotta a Curtatone e a Montanara (29 maggio) contro le truppe dei volontari toscani, si scontrò a Goito con l'esercito piemontese, che riportò una brillante vittoria, impedendo agli Austriaci il passaggio del Mincio. Se non che, il Radetzky, traendo profitto dell'inesplicabile inazione del nemico, piegò su Vicenza, che fu costretta a capitolare, e rinforzato dalle truppe di L. v. Welden, sconfisse a Sommacampagna l'ala destra dell'esercito piemontese comandata da E. de Sonnaz (22-23 luglio), e due giorni dopo batté l'esercito di Carlo Alberto a Custoza, lo costrinse a togliere il blocco a Mantova, quindi lo sconfisse a Volta, obbligandolo alla ritirata su Milano e poi a rivalicare il Ticino. Il Radetzky entrò in Milano il 6 agosto e tre giorni dopo concluse l'armistizio detto di Salasco, per cui l'esercito piemontese doveva evacuare da tutto il territorio lombardo. Ripresa la guerra il 16 marzo 1849, dopo otto mesi di armistizio, il Radetzky varcò il Ticino presso Pavia e il 23 marzo riportò una nuova vittoria a Novara; e poiché negò una sospensione d'armi, Carlo Alberto decise di abdicare (24 marzo) in favore del figlio, che fu costretto ad accettare le dure condizioni dei preliminari di pace imposte dal Radetzky Nominato governatore generale del Lombardo-Veneto, il Radetzky amministrò il paese con eccessiva severità, sia nei riguardi degli esuli, sequestrando i beni ai più facoltosi, sia nel reprimere il moto insurrezionale del 6 febbraio 1853, ma specialmente per la crudeltà dimostrata nel perseguitare i patrioti milanesi e per la fredda ferocia durante i processi di Mantova. Fu collocato a riposo il 28 febbraio 1857. Scrisse di argomenti militari (Über den Zweck der Übungslager im Frieden, 1816; Gedanken über Festungen, 1827, ecc.).
La battaglia di Custoza è finita: esempio tipico di valore e d'abnegazione da parte di truppe eroiche, frustrati da un'infelicissima condotta d'operazioni. Quanto alle perdite, i piemontesi lamentarono 212 morti, 657 feriti e 270 prigionieri; gli austriaci 175 morti, 723 feriti e 422 prigionieri e dispersi. Da notarsi lo scarsissimo numero di prigionieri, specialmente da parte dei tenaci piemontesi, che pur combatterono in condizioni di grande inferiorità; il maresciallo Radetzky era ben lungi dall'aver ottenuto una vittoria annientatrice! Infatti alle dieci, in Villafranca, il Bava aveva un nuovo colloquio col re e gli diceva che ormai occorreva ripiegare su Goito e portare la difesa sulla destra del Mincio; ma non c'era da disperare: si potevano portare tutte le forze, comprese quelle al blocco di Mantova, a Roverbella e a Goito, sulle colline marginali dell'anfiteatro morenico dell'altra sponda, dando man forte al De Sonnaz; cosi da formare una nuova linea da Volta a Cavriana, ben più consistente di quella ora perduta da Sommacampagna a Custoza, appoggiandosi per di più al Mincio e a Peschiera. Ma per far questo occorreva che il De Sonnaz, non solo conservasse Volta, ma continuasse a trattenere il nemico sul Mincio. Carlo Alberto sa come stanno le cose, ma ancora non ha fatto saper nulla al suo consigliere; così come non ha notificato l'autorizzazione data al De Sonnaz di abbandonare anche Volta in caso di necessità; anche ora il re sì limita a fargli sapere che gli austriaci sono padroni del passo di Salionze, e non altro. Il Bava allora insiste perché si ordini al De Sonnaz di contrattaccare al mattino gli austriaci, che sulla destra del Mincio non possono essere in gran numero, e di ricacciarli nel fiume. Carlo Alberto sembra consentire; e alle undici e mezzo, contemporaneamente agli ordini per la ritirata su Goito, è mandato dal Comando supremo l'ordine al De Sonnaz «di tener fermo a Volta». La marcia da Villafranca a Goito si effettua con grande regolarità e disciplina, senza nessuna seria molestia nemica né dal lato di Valeggio né da quello di Mantova. E già prima hanno lasciato Volta, come s'è visto, le truppe del De Sonnaz, che alle cinque del 26 luglio, precedendo le sue schiere, si trova a Goito. Qui prima delle sei riceve l'ordine di « tener fermo a Volta». Ma egli ritiene che le truppe debbano, prima di tornare a Volta, riposarsi e prendere il rancio. Fra le otto e le quindici anche le truppe del Bava, la brigata Regina e le truppe di Roverbella si trovano riunite in Goito, il Bava è riuscito a trasportare in meno di dieci ore, attraverso un unico ponte, tutta la massa al di qua del Mincio, dimostrazione d'energia, d'abilità tecnica e di disciplina fra le truppe.
Alle undici il re è a Goito e riunisce appena gli è possibile il Salasco, il Bava e il De Sonnaz. È stata abbandonata Volta: il comandante del II Corpo mostra l'ordine scritto; il Bava e il Salasco rimangono stupiti, dichiarano che non ne sapevano nulla, e Carlo Alberto tace. Ma non è il caso di fare recriminazioni: il re ordina al De Sonnaz di tornare subito a Volta colla 3a divisione; questi fa notare - siamo circa a mezzogiorno - il terribile caldo; il re dispone allora che la divisione partirà alle quattro, anzi visto che le truppe paiono scosse di morale, le risolleverà colla sua presenza, passandole in rivista alle tre. A quest'ora il re passa in rivista le truppe: pallido, terreo, febbricitante, non dice una parola, non ha un gesto animatore. Alle quattro pomeridiane la 3a divisione col De Sonnaz, si pone in cammino: ad onta di tutto, le truppe mostrano uno spirito elevato. Si è però perso un tempo prezioso. II Radetzky, quella mattina del 26, ha dato le nuove disposizioni perché l'esercito, varcato il Mincio, si spinga energicamente avanti, per tagliare con ampio avvolgimento l'eventuale ritirata ai piemontesi nella pianura. Cosi il I Corpo dovrà mirare a Castiglione delle Stiviere; il II, per Valeggio e Volta, a Guidizzolo, e il I Corpo di riserva a Pozzolengo, dietro e a metà strada fra il I e il II Corpo. Per i piemontesi Volta sarebbe stata il perno della loro manovra verso il Mincio; per gli austriaci il precedervi il nemico voleva dire scardinare in sul nascere la sua controffensiva e avere al contrario in propria mano il perno d'un'altra manovra avvolgente, tendente pure a serrare i piemontesi sul Mincio, ma con conseguenze ben più gravi, tagliandoli fuori dalla loro base d'operazione: il piano primitivo del Radetzky.
Alle sei pomeridiane le avanguardie austriache occupano Volta, ma apprendono che una forte colonna nemica è in marcia da sud, a non più di 1000 o 1200 metri di distanza. Subito nuove forze accorrono, cosicché la 3a divisione piemontese, giunta in ritardo per pochi minuti, deve procedere ad un attacco di viva forza. Dopo mezz'ora di tiro di preparazione d'artiglieria, le truppe muovono all'assalto. La resistenza nemica appare subito tenacissima: pure, l'attacco procede alla destra, mirando a tagliare la strada di Borghetto, e anche al centro i savoiardi riescono a penetrare nell'abitato, ove infuria una lotta serrata che si protrae fino al buio con aspetti selvaggi e sanguinosi. Nelle tenebre accade che i piemontesi più d'una volta facciano fuoco fra di loro! E verso le otto giungono forti rinforzi agli austriaci, e la destra piemontese, che più aveva avanzato, deve retrocedere. Ma verso le nove il generale D'Aspre, impressionato dell'asprezza della lotta, comunica al Radetzky di ritenere d'esser di fronte all'inizio d'una grande controffensiva nemica, avente come perno Volta, e chiede l'intervento del Comando supremo! Quasi contemporaneamente il De Sonnaz manda a Goito a chiedere rinforzi; in realtà, dopo le dieci i piemontesi non riescono più a progredire; dopo le undici il combattimento si va spegnendo. Alle due dopo mezzanotte il De Sonnaz ordina alle truppe di retrocedere in attesa dì rinforzi. Che fa intanto Carlo Alberto? Egli avrebbe dovuto assegnare subito al De Sonnaz anche le truppe fresche di Goito e di Roverbella, ossia 10 battaglioni in piena efficienza, che uniti agli altri 10 della 3a divisione, avrebbero dato fin dagli inizi un altro svolgimento al combattimento di Volta. Al tuonare del cannone sempre più prolungato, egli si decide ad abbandonare il blocco di Mantova, ma, all'insaputa del Bava, e non per volgere verso l'orlo collinare morenico, ma verso l'Oglìo! Però, ricevuta la richiesta di rinforzi, dispone perché parta verso Volta il 17° fanteria e quindi la brigata Regina. Ma questa sola si muove tempestivamente e alle quattro di mattina è sotto Volta. Il nuovo attacco grava tutto sui 6 battaglioni della Regina e su 2 soltanto della 3a divisione, che le truppe del De Sonnaz sono quasi tutte spossate e gli austriaci dispongono di 13 battaglioni più altri 4 non lontani. Alle prime luci si sferra l'attacco: di nuovo alla destra si riesce ad avanzare, ma al centro e alla sinistra l'attacco, sebbene condotto con mirabile slancio, fallisce. E ben presto si sferra il grande contrattacco nemico: di fronte alla strapotente pressione avversaria, gli eroici combattenti devono cedere; il De Sonnaz ordina la ritirata generale su Goito. Sono le sei del mattino del 27 luglio. La ritirata s'inizia in ordine. Dopo tre chilometri di cammino però, 3 squadroni di ulani tentano disturbarla; ma sono giunti da poco Savoia e Genova Cavalleria, e quest'ultimo con brillante carica li respinge in disordine. Agli ulani seguono ora 3 squadroni di dragoni, ma anche questi sono affrontati dal Savoia Cavalleria, ugualmente respinti volti in disordinata fuga, e per di più presi in pieno sotto il fuoco di una batteria piemontese. Ma la cavalleria nemica attacca una terza volta. La fanteria piemontese di retroguardia forma quadrato, i cavalieri avversari sono respinti dai fuochi di fila e dal tiro dell'artiglieria: inseguiti vigorosamente da Genova e Savoia Cavalleria si allontanano definitivamente. Alle dieci le truppe sono davanti a Goito, il dramma di Custoza è ora al suo termine; la dura battaglia è durata dal mattino del 22 luglio a Rivoli, al mattino del 27 presso Cerlungo; cinque lunghi e tragici giorni, decisivi per le sorti d'Italia.
Alle otto di mattina, mentre la 3a divisione e la brigata Regina sono in ritirata verso Goito, Carlo Alberto ha qui riunito un consiglio di guerra: si può continuare la lotta o è necessario chiedere una tregua all'avversario, mostrandosi disposti a retrocedere dietro l'Oglio? Prevale l'opinione che sia dolorosa necessità venire a patti col nemico e il generale Bes, il generale Rossi e il colonnello Alfonso La Marmorà, capo di Stato Maggiore del duca di Genova, sono mandati come parlamentari al campo nemico. Intanto il Bava da gli ordini perché l'esercito si schieri a nord di Goito su tre linee. Ma già si notano i sintomi dell'indisciplina e della demoralizzazione in alcuni alti comandi. La brigata Aosta dovrebbe spostarsi avanti a sinistra, per collocarsi accanto alla brigata Regina e ricostituire la la divisione; e la 2a divisione dovrebbe venire avanti da Solatolo obliquando a destra. Ma il generale D'Aix di Sommariva, comandante della brigata Aosta e interinalmente della la divisione, per la malattia del generale D'Arvillars, trova comodo fraintendere l'ordine comunicatogli verbalmente e s'avvia colla brigata e 8 cannoni verso il basso Oglìo. Giunto a cinque chilometri dal fiume, riceve un biglietto del Bava, scritto d'ordine del re, perché si porti al posto già stabilito; ma egli, adducendo la stanchezza delle truppe, prosegue oltre l'Oglio. Quanto alla 2° divisione, essa all'insaputa del Bava già è stata avviata a Gazzoldo, anziché a Solarolo; cosicché il Bava si trova ad avere la sinistra del suo schieramento priva di ben 15 battaglioni, 6 squadroni e 24 cannoni. Non solo, ma il generale Di Ferrero, comandante della 2a divisione, piglia senz'altro anch'egli colla brigata Casale la via dell'Oglio. Nel pomeriggio del 27, mentre si attendeva dunque la risposta alle proposte di armistizio, si sarebbe potuto credere che l'esercito piemontese fosse più che mai riunito e che il maresciallo Radetzky, con cinque giorni di continue azioni, fosse riuscito soprattutto a correggerne il difettoso schieramento; le perdite dei piemontesi in morti e feriti erano state relativamente molto scarse, quelle in prigionieri e dispersi addirittura minime, il valore mostrato in ogni combattimento, indiscutibile. Insomma, l'esercito piemontese non era né accerchiato né annientato. Ma la lunga lotta aveva messo a nudo, come non mai in precedenza, tutte le deficienze di comando e di organizzazione dell'esercito e la sua conseguente inferiorità rispetto a quello avversario. Da ciò la sfiducia nei capi e il riaffiorare degli elementi negativi e dissolventi, sempre latenti anche nei migliori eserciti. Perdurava poi e si faceva sempre più acuta la crisi dei viveri, il vero tarlo dell'esercito. La relazione del duca di Genova parlava in seguito dei « nostri poveri soldati, esausti per la fame e per la fatica, nell'impossibilità di combattere, perché anche vincitori, sarebbero morti dì fame ».
Gli eventi della battaglia avevano però mostrato come, dopo due giorni di sosta, le truppe del II Corpo erano ancora state capaci degli eroismi di Volta; era dunque opportuno rompere decisamente il contatto col nemico, e portare l'esercito in posizione ove potesse contare su due o tre giorni di riposo. I servizi avrebbero frattanto avuto un inizio di riorganizzazione. In questo senso la ritirata dietro l'Oglio poteva essere giustificata. Ma andava per prima cosa accompagnata da una vasta opera di interruzioni stradali, efficacissime in un paese ove il terreno, rotto come pochi altri da fossi, canali, paludi, argini, alberi e siepi, costringeva l'inseguitore a procedere per passaggi obbligati lungo le strade. Al contrario, meno che mai si pensava a questo. E cominciavano a manifestarsi inquietanti sintomi di indisciplina e di demoralizzazione in alto e in basso; lo sfrenarsi senza ritegno delle accuse e delle recriminazioni fra i capi, subito divulgate con estrema leggerezza o mala fede e atti di vera insubordinazione come quelli del generale Di Ferrere e soprattutto del generale Di Sommariva; mentre cominciavano a lamentarsi gruppi di dispersi, sottufficiali e soldati, che ingombravano le strade, dando per la prima volta l'impressione di un vero rovescio. Pure, la massa dei combattenti era ancora sana e bastava una buona parola, la possibilità d'un qualche ristoro per rianimare subito i soldati. Fra le cinque e le sei, torna l'ambasceria spedita al comando austriaco: il Radetzky è disposto a concedere la tregua, ma esige la linea dell'Adda anziché quella dell'Oglio, e per di più lo sgombro di Peschiera, di Venezia, di Osoppo, dei Ducati. Il re, udite le condizioni, esclama: «Piuttosto morire! » L'offensiva austriaca si è scatenata mentre stavano per concludersi le pratiche della diplomazia inglese e francese per far cessare la guerra colla cessione a Carlo Alberto della Lombardia fino all'Adige e dei Ducati; e forse il maresciallo ha scatenato la sua offensiva proprio per impedirne la conclusione. Carlo Alberto non intende veder rovinata l'opera sua quasi al momento di coglierne i frutti; e meno che mai intende che a Milano i repubblicani e i democratici si sostituiscano a lui, con una ripresa di guerra di popolo e invocando l'intervento francese.
Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962